S. Messa in occasione della Tredicina di Sant’Antonio
(Padova / Basilica di Sant’Antonio, 9 giugno 2024)
Omelia del Patriarca di Venezia Francesco Moraglia
Cari fratelli e sorelle,
“Animati… da quello stesso spirito di fede di cui sta scritto: Ho creduto, perciò ho parlato, anche noi crediamo e perciò parliamo…” (2Cor 4,13).
Questo passo della seconda lettura evoca l’irrompere della fede cristiana nella vita di san Paolo che porta ad annunciare e trasmettere quanto si è ricevuto ma, in qualche modo, queste parole possono aiutarci a leggere anche un passaggio importante della vita di sant’Antonio mentre ci prepariamo, con questa celebrazione domenicale inserita nella Tredicina, all’ormai prossima festa del Santo.
C’è nella vita di tutti i santi un episodio, un momento “forte” di autentica e decisa conversione, che porta talora ad avvicinarsi ed abbracciare un “credo” prima non considerato o addirittura osteggiato (è il caso di san Paolo) oppure, in altre occasioni, conduce la persona ad una comprensione più piena della fede stessa e della propria vocazione cristiana.
Come è noto, per Antonio fu decisivo negli anni 1219-20 il passaggio a Coimbra di cinque francescani (tre sacerdoti e due fratelli laici) che Francesco d’Assisi aveva inviato verso le zone musulmane della Spagna e poi verso il Marocco con l’intento di convertire e annunciare il Vangelo. La loro predicazione di Cristo, anche nelle moschee, finì con un martirio oltremodo crudele, decapitati e lasciati in pasto agli uccelli; i loro resti mortali furono raccolti e portati nella chiesa agostiniana di Coimbra per esservi custoditi e venerati.
L’esempio di testimonianza cristiana di questi cinque francescani, fino al martirio, fu elemento decisivo per orientare Antonio – da agostiniano che era – a compiere la “conversione” che lo portò nell’Ordine francescano. È in questo momento che diventa “Antonio”; fino ad allora portava, infatti, il nome Fernando ricevuto al fonte battesimale.
Molte volte per i santi è così: c’è un evento che emerge dalla realtà vissuta che suscita in loro uno scatto radicale e un balzo in avanti della fede, un momento di “conversione” e di visione più nitida e limpida della propria vita in Cristo da parte di persone che già erano avviate verso una peculiare vocazione. Gli esempi sono molteplici e ne cito qui solo due.
Pensiamo a san Giuseppe Benedetto Cottolengo, sacerdote a Torino e che nell’Ottocento aprì le Piccole Case della Divina Provvidenza per i malati rifiutati da tutti, per gli handicappati, gli orfani, le ragazze in pericolo e gli invalidi. Ma questo non avvenne subito: l’episodio che cambia la sua vita – “la grazia della Madonna”, lo definirà – e lo trasforma da un prete in crisi al “canonico buono” e al “manovale della Provvidenza” (come era denominato) accade quando ha già 42 anni e viene chiamato al capezzale di una giovane donna francese, mamma di tre figli e in avanzato stato di gravidanza, che muore insieme alla sua bimba nata prematura dopo essere stata rifiutata dall’ospedale di allora perché malata di tubercolosi. In quel momento il Cottolengo comprende che è chiamato a fare qualcosa di più per i poveri, per i dimenticati, per gli scartati e messi ai margini. E così avverrà poi con l’opera di misericordia che riuscirà a mettere in piedi.
Ma pensiamo anche a santa Teresa di Gesù (Teresa d’Avila), donna forte e capace prima di entrare in convento a 21 anni con una vera e propria “fuga”, vincendo la ferma opposizione del padre, e che poi, intorno ai 39 anni e in mezzo a molte tribolazioni, ebbe quella che lei stessa chiamò la sua “conversione” o “seconda conversione” raccontata così: “I miei occhi caddero sopra una immagine che era stata posta lì, in attesa della solennità che doveva farsi in monastero. Raffigurava Nostro Signore coperto di piaghe. Appena la guardai mi sentii tutta commossa, perché rappresentava al vivo quanto Egli aveva sofferto per noi: fu così grande il dolore che provai al pensiero dell’ingratitudine con la quale rispondevo al suo amore, che mi parve il cuore mi si spezzasse. Mi gettai ai suoi piedi tutta in lacrime, e lo supplicai a darmi forza per non offenderlo più” (Teresa d’Avila, Vita 9,1). Da lì cominciò a prendere forma, tra non poche opposizioni, la riforma del Carmelo da lei propugnata ed anche la fondazione di nuovi monasteri.
“Animati… da quello stesso spirito di fede di cui sta scritto: Ho creduto, perciò ho parlato, anche noi crediamo e perciò parliamo…” (2Cor 4,13), diceva san Paolo che, poco più avanti, aggiunge anche: “Per questo non ci scoraggiamo” (2Cor 4,16).
Così è stato anche per Antonio. Il Santo ha vissuto forti momenti di conversione che lo hanno portato ad essere il grande predicatore del Vangelo amato e cercato dalla gente, riconosciuto in questo anche ufficialmente da Francesco d’Assisi che, tra il 1223 e il 1224, gli mandò un biglietto con cui lo autorizzava ad insegnare la teologia ai frati, purché non andasse a scapito della preghiera, in una vera investitura a predicatore e teologo: “A frate Antonio, mio vescovo, frate Francesco augura salute. Ho piacere che tu insegni la sacra teologia ai frati, purché in questa occupazione, non estingua lo spirito dell’orazione e della devozione, come sta scritto nella Regola” (San Francesco d’Assisi, Lettera a frate Antonio).
La grande questione della fede – ricevuta, accolta, trasmessa, annunciata e vissuta – e il primato di Dio – da riscoprire e riaffermare oggi nella nostra vita e nella storia – è quanto sant’Antonio ci pone dinanzi ogni volta come un interrogativo per noi, per la Chiesa, per l’intera società.
Ne troviamo un riflesso anche nel Vangelo di Marco che è stato appena proclamato e che ci mostra Gesù – in quel momento, motivo di attenzione da parte della folla ma anche motivo di discussione e di scandalo per gli scribi – parlare di un peccato che non può essere perdonato, quello contro lo Spirito Santo: “…tutto sarà perdonato ai figli degli uomini, i peccati e anche tutte le bestemmie che diranno; ma chi avrà bestemmiato contro lo Spirito Santo non sarà perdonato in eterno” (Mc 3,28-29).
Questa espressione sembra evocare anche una certa deriva della società contemporanea in cui non sembra esistere il bene e il male – come realtà distinte e distinguibili – e in cui Dio è messo, semplicemente, da parte e non vi è più un riferimento a qualcosa – a Qualcuno – che vada al di là e oltre il contingente e il provvisorio.
Esiste solo l’elemento storico o quello che pare esserlo o richiamarlo. L’uomo viene considerato come un essere unicamente “culturale”, ossia plasmato totalmente dalla storia e nella storia; è il risultato del divenuto, un super uomo che, in totale autonomia, è norma a sé medesimo.
Sembra riecheggiare il racconto di Nietzsche che, di fatto, evidenzia la crisi morale del nostro tempo e il suo radicale nichilismo: «Avete sentito di quel folle uomo che accese una lanterna alla chiara luce del mattino, corse al mercato e si mise a gridare incessantemente: “Cerco Dio! Cerco Dio!”. E poiché proprio là si trovavano raccolti molti di quelli che non credevano in Dio, suscitò grandi risa. “È forse perduto?” disse uno. “Si è perduto come un bambino?” fece un altro. “Oppure sta ben nascosto? Ha paura di noi? Si è imbarcato? È emigrato?” – gridavano e ridevano in una gran confusione. Il folle uomo balzò in mezzo a loro e li trapassò con i suoi sguardi: “Dove se n’è andato Dio? – gridò – ve lo voglio dire! Siamo stati noi ad ucciderlo: voi e io! Siamo noi tutti i suoi assassini! (…) Che mai facemmo, a sciogliere questa terra dalla catena del suo sole? Dov’è che si muove ora? Dov’è che ci moviamo noi? Via da tutti i soli? Non è il nostro un eterno precipitare? E all’indietro, di fianco, in avanti, da tutti i lati? Esiste ancora un alto e un basso? Non stiamo forse vagando come attraverso un infinito nulla? (…) Dio è morto! Dio resta morto! E noi lo abbiamo ucciso!”» (Friedrich Nietzsche, La gaia scienza – Aforisma 125).
Sant’Antonio – come san Paolo e tanti altri santi, anche del nostro tempo – si è lasciato convertire, ha creduto e perciò ha potuto parlare con sapienza e forza, ha accolto e trasmesso integralmente il Vangelo che è la persona stessa di Gesù.
A tal proposito riprendo una frase dell’omelia che sant’Antonio pronunciò in una festa liturgica dell’Ascensione del Signore: «Credere vuol dire “dare il cuore” (lat. credo, cor do)… Chi dà il cuore, dà tutto. Perciò crede colui che con la devozione del suo cuore si sottomette totalmente a Dio; viene battezzato, quando si inonda di lacrime o per la dolcezza della contemplazione divina, o per il ricordo della sua iniquità, oppure per la compassione che prova di fronte alle necessità dei fratelli. “Invece chi non crede”, non dà il cuore a Dio, e se non lo dà a Dio, necessariamente lo darà al diavolo, o alla carne, o al mondo…» (Sant’Antonio, Sermone per l’Ascensione del Signore, paragrafo 5).
Possano, allora, essere per noi vere – per intercessione di sant’Antonio e di tutti i santi – le parole di Gesù che concludono il Vangelo di questa domenica: «Girando lo sguardo su quelli che gli stavano seduti attorno, disse: “Ecco mia madre e i miei fratelli! Chi compie la volontà di Dio, costui è mio fratello, sorella e madre”» (Mc 3,34-35).